È la domanda principale che si chiedono milioni di lavoratori, perché tornare in un unico ambiente in cui dividerci lo spazio nello stesso tempo? Il lavoro da remoto ha dimostrato di funzionare per alcuni aspetti anche meglio del lavoro svolto in maniera tradizionale o pre-Covid.
Il lavoro da casa ha salvato le organizzazioni, non c’è dubbio, ma ha messo in luce un aspetto che non si pensava potesse essere l’ago della bilancia che sta spingendo la maggior parte dei lavoratori a preferire il ritorno in ufficio.
Già prima della pandemia, diversi studi avevano tranquillizzato gli imprenditori sui livelli di produttività del lavoro che si possono raggiungere lavorando da remoto. I risultati avevano innescato la miccia che ha portato all’esplosione dello smart working con il sopraggiungere dell’emergenza sanitaria.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata da effetti indesiderati e dei quali sino ad ora si è tenuto in poco conto. Iniziamo dal ruolo che esercita lo spazio ufficio sulle menti nel medio lungo periodo.
Il modello di forza dell’autocontrollo e la relazione con l’ambiente
Il lavoro svolto in diversi ambienti non dà gli stessi risultati, lo spazio fisico dell’ufficio non è uguale ad una casa e viceversa. Ciascuna destinazione d’uso determina le peculiarità del luogo che la ospita, e questo a sua volta restituisce all’utenza i segnali attesi.
L’ufficio rappresenta il luogo naturale per svolgere il lavoro perché quando ci troviamo in esso siamo predisposti all’impegno e alla dedizione ad una specifica attività e non subiamo distrazioni e stimoli che ci deviano dal nostro particolare compito. Al contrario, quando ci adattiamo a lavorare da casa, siamo costretti a consumare maggiore energia mentale, nello sforzo costante di silenziare quegli stimoli che in una condizione normale dello stare a casa ci rilasserebbero. Un comodo sofà, una televisione spenta diventano tentazioni da ignorare così come i rumori della stanza affianco ci costringono ad attivare la sordità funzionale, cioè quella per cui ci si sforza di non dare ascolto a ciò che non è gradito, oppure di attivare l’attenzione selettiva, tipico dell’effetto cocktail, che ci aiuta a isolare l’oggetto di attenzione in un contesto caotico.
La teoria dell’Ego Depletion che riguarda appunto il dispendio di risorse mentali legate all’ autocontrollo è validata scientificamente da Roy Baumeister e Dianne Tice, con il famoso esperimento dei biscotti di cioccolato. In sostanza gli psicologi hanno ideato una situazione in cui un gruppo di individui poteva cibarsi di biscotti di cioccolato e non solo, mentre l’altro gruppo poteva solo osservare e resistere alla tentazione nutrendosi al massimo con dei ravanelli.
Quando al termine i due gruppi furono invitati a cercare di risolvere un problema insolubile accadde che il gruppo che aveva mangiato a piacimento le leccornie di cioccolato, cioè non aveva attivato alcune inibizione al comportamento, riuscì a lavorare sulla soluzione per 19 minuti, un tempo doppio rispetto a quello investito dal gruppo che era stato sottoposto ad autocontrollo. Il continuo sforzo inibitorio aveva consumato le energie del secondo gruppo necessarie alla soluzione del problema (principale compito ) e alla concentrazione, con l’ulteriore conseguenza di renderli più suscettibili allo stress.
Questo è un esempio che ci spiega chiaramente come ambienti e contesti male organizzati possano avere un effetto negativo rispetto alla produttività oltre che, alla lunga, creare disagio psicologico.
Altrettanto importante è anche separare e distinguere gli spazi per funzioni specifiche, evitare di fonderli in spazi ibridi e premettere che la transazione da una situazione ad un’altra possa avvenire in modo completo e veloce, senza che i problemi e le questioni legate ad un contesto siano trascinati e sovrapposti ad altri. Va da sé, quindi, che tornare a casa dopo una giornata di ufficio, attivi il distacco più facilmente rispetto a coloro che a casa ci lavorano.
Rimane da spiegare come mai durante il lungo periodo di emergenza da pandemia si siano distinte due categorie di smart worker improvvisati, quelli che rimpiangevano l’ufficio e non vedevano l’ora di ritornarci, e quelli soddisfatti perché finalmente sfuggiti ad un ambiente tossico e male organizzato.
È evidente che nel secondo caso ci troviamo di fronte ad una realtà, immobiliare e gestionale, non all’altezza delle aspettative.
Bisogni sociali connessi all’ambiente di lavoro
Il desiderio dell’essere umano di sentirsi in contatto con i suoi simili è ritenuto uno dei bisogni fondamentali. Il motivo risiede sugli effetti derivanti sulla salute, mentale e fisica, sino al rischio di mortalità.
La ricerca di Goble e Gosnell del 2011 ha ipotizzato che le relazioni positive possano proteggere dai rischi dello stress. In particolare il cervello può rilasciare ossitocina in risposta al contatto sociale. Sul posto di lavoro questo ormone regola l’affidabilità e la motivazione a supportare il lavoro dei propri colleghi. Quando vi sono cooperazione, correttezza e fiducia, si attiva il centro della ricompensa che spinge il cervello a futuri comportamenti virtuosi nei confronti di coloro che in quel momento cooperano con noi.
L’ufficio è il luogo in cui avviene più facilmente lo scambio di idee, i rapporti stretti si generano dalla consuetudine dell’interazione sociale. Il lavoro da remoto contempla certamente relazioni ma rimane un po’ più indietro per il tipo di qualità. Difficilmente la propria cerchia di persone fidate si allarga lavorando da remoto e con tutta probabilità sono minori i momenti in cui si ricevono minori segnali spontanei positivi, caratteristici della presenza faccia a faccia.
I propri bisogni sociali, nel tele-lavoro, rischiano di essere, alla lunga i più penalizzati. Le interazioni sociali sono insite nella natura umana, la solitudine del lavoro da remoto è un fattore cruciale che fa propendere per la scelta di recarsi in ufficio.
Conclusioni
Quando si citano i lati positivi del tornare in ufficio, si fa riferimento soprattutto alla capacità di quest’ultimo di generare interazioni continue. L’innovazione, scaturita dalla creatività, dipende proprio, come vedremo tra poco, da una serie di contatti anche casuali, che porta a trovare soluzioni inaspettate.
Si fa meno riferimento ai vincoli che comporta la natura umana orientata ad includere il prossimo come fonte di salute. La progettazione conosce questi schemi e cerca nuovi modi per rappresentarli.